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Riflessioni sul 3D (in fotografia)

Stupore, meraviglia, shock. Vero e proprio miraggio della comunicazione contemporanea, le tre specifiche sembrano essere il fine ultimo di ogni analisi sul 3D. Dal cinema alla fotografia, la febbre delle immagini 3D ha contagiato tutto, e il bidimensionale sembra non aver più nulla da dire.

Visto così l’uso del 3D sembra esser destinato a prendere sempre più piede tra gli utenti più inclini allo stupore, mentre i più smaliziati sminuiscono il nuovo mezzo leggendolo solo come una sorta di baraccone delle meraviglie che non aggiunge informazioni alle immagini.

Ma una volta che ci si trova di fronte ad un nuovo e diverso uso del 3D, quello dello shock, che amplia e fortifica l’orrore estetizzandolo a dismisura, o si ama o si odia senza nessuna sfumatura fra le due letture. Parliamo per esempio di Marco Di Lauro, fotografo. Sul suo sito (www.marcodilauro.com ) potete provare in prima persona cosa intendo per shock triplicato: le immagini parlano di orrore e disperazione. Hanno davvero bisogno di urlare il dolore delle persone ritratte? La storia è ormai vecchia. “La bellezza sarà convulsa o non sarà” dichiarava stentoreo Andrè Breton. Difficile dargli torto: ormai viviamo in un mondo convulso, e la categoria della bellezza si adegua (giustamente) al gusto corrente. La spettacolarizzazione sembra essere l’unico modo per vendere qualsiasi cosa, e allora, perchè non utilizzarla per raccontare una storia piuttosto che per vendere una macchina?

“Per il mio nuovo sito volevo una presentazione d’impatto, innovativa, creativa”, racconta Di Lauro in un’intervista sul sito della National Geographic (“Effetto 3D: le foto di Marco Di Lauro” ) “che lasciasse senza fiato e che al contempo facesse riflettere sulle immagini e il loro significato stimolando una consapevolezza nei confronti della guerra e dei danni che ne derivano”.

Quindi nessuna operazione sommersa, gli intenti sono chiari e limpidi.

Oltre allo shock, e quindi alla spettacolarizzazione del dolore messa in atto dalle immagini trasformate in 3D, ciò che mi ha colpito è stata proprio la presentazione. La scelta di inquadrare nuovamente le immagini per una lettura nuova e cinematografica. Un punto di vista dell’autore duplicato, dove alla scelta dell’attimo da riprendere e la sua composizione si aggiunge successivamente una scelta di lettura che guida l’occhio di chi la guarda.

Una carrellata scelta e voluta dall’autore, affidata a Ippolito Simion, socio fondatore dello Studio Rat, regista e montatore. Che parla del suo lavoro sul sito della National Geographic: “La fotografia è fissare un attimo, io quell’attimo lo diluisco ancora un po’, cercando di rimanere il più possibile fedele allo spirito del lavoro del fotografo. Operiamo in maniera che l’animazione sia il più possibile uguale alla foto. (…) In alcuni casi vengono prodotte forzature di prospettiva, piuttosto che degli artefatti da ricostruzione dei livelli scomposti. Finora tuttavia nessun fotografo ha rinunciato alla animazione della foto per paura di uscire dagli schemi comunicativi canonici, o di aver inflazionato lo scatto originale. La musica, composta ex novo per ogni lavoro, è un’altra fondamentale dell’impasto finale”.

Dunque, scelte prettamente cinematografiche, un gusto per la narrazione forte e d’impatto, immagini amplificate che descrivono attraverso lo shock e la meraviglia storie di per sé già forti e che quindi aprono la riflessione. Sull’uso delle nuove tecnologie, sul possibile futuro della fotografia, che potrebbe diventare una vera e propria immagine parlante, una sorta di ibrido dove le informazioni, che nel caso delle immagini standard bidimensionali erano contenute tutte nell’immagine, a contenitori in un 3D che non consiste più solo nella rielaborazione delle immagini, ma in file mutimediali che raccontano palesemente luogo, circostanza, musiche e chissà cos’altro deciso dal fotografo.

E allora siamo di fronte a un deciso balzo in avanti della fotografia, o è solo l’ennesimo esperimento dagli esiti ancora incerti? A voi la riflessione.

Scrive di cinema, arte contemporanea e fotografia, ama il design e la storia, la filosofia e la politica. Dai film di Quentin Tarantino alle poesie di Doroty Parker, dai fumetti di Neil Gaiman ai libri di Umberto Eco, dalle opere di Damien Hirst alle analisi di Susan Sontag, ama contemporaneamente il passato e il futuro, mescolare l’alto col basso e divertendosi nel farlo. Ha capito due cose: quello che ricerca è il multiforme, e i “confini” non sono inviolabili.

Comments

  • angromit
    10 Febbraio 2011

    be tanto sai gia come la penso , e ogni volta che c’è un evoluzione si ha paura ,si pensa che debba far sparire il resto, cosa che puo anche succedere ma anche no, erano spariti i vinili e sono tornati, la televisione doveva far sparire la radio e invece funziona piu di prima, il bidimensionale funzionerà finchè qualcuno avrà idee valide per sfruttarlo e il 3D sarà solo un modo in piu per dire qualcosa …se c’è da dire ,se no sarà soppiantato da qualcos’altro , è il modo in cui la si utilizza la tecnologia che la rende utile o nociva non la tecnologia in se….certo come l’ha sfruttata in questo caso puo essere discutibile o meno… probabilmente in futuro i telegiornali ti scaraventeranno direttamente dal tavolo della cucina fino in mezzo alle macerie di un terremoto o di una guerra o magari sott’acqua nelle meraviglie dei fondali marini in 4D….poi ci sarà sempre un telecomando, l’importante è poter scegliere…..cmq bell’articolo ciau 😉

  • valentina cinelli
    14 Febbraio 2011

    io sarei decisamente contraria a questo tipo di intervento sulle foto.
    ma non perché non accetto l’evoluzione del linguaggio fotografico, ma solo perché mi dà l’idea che l’autore delle foto non sia soddisfatto del risultato del suo lavoro, e aggiunga un “effetto speciale” per dargli più carattere… tipo i fotografi amatoriali che in postproduzione trasformano una foto da colore in b/w perché a colori non funziona.

    perché aggiungere un ulteriore effetto, se la foto comunica già di suo?

    in sintesi:

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