Nella sua rubrica Marco Ferri cede la parola Pasquale Barbella, che ha scritto un ricordo di Luigi Montaini, che ci ha improvvisamente lasciato lo scorso lunedì.
“Luigi era un trascinatore spiazzante; nella pubblicità italiana nessuno è stato più influential di lui nel decennio che va dal 1969 alle soglie degli Ottanta. Un periodo fin troppo breve, è vero, ma il più intenso e brillante del dopoguerra. La mia generazione gli deve tantissimo”.
I hate Mondays, di Pasquale Barbella
Già m’ero svegliato con l’umore d’una triglia depressa; non è giornata, pensavo. Quand’ecco che arriva fresca fresca la pugnalata: Luigi è morto. Non è possibile, dico; lo si dice sempre, e invece è possibilissimo. Mi aveva chiamato martedì 29 maggio, subito dopo la scossa delle 9, quella di magnitudo 5.8. Ne aveva letto su Facebook, ma non avendola
sentita di persona non ci credeva; per questo mi aveva chiamato. Per domandarmi se era vero. Luigi era fatto così.
Già che c’era, disse di essersi sentito male in un bar, qualche giorno prima. «Quando sono arrivato al pronto soccorso stavo già bene.» Gli chiesi cosa fosse risultato dai controlli. «Niente controlli. Non avevo voglia di aspettare sei ore e me ne sono tornato a casa. Tanto domani devo vedere il mio cardiologo.»
La caduta di Luigi è come il crollo di un capannone. Ma uno di quelli solidi, ben costruiti, antisismici. Luigi è sempre stato un fascio di muscoli. Ne andava fiero. «Toccami il bicipite. Stringi», diceva a tutti. Cemento armato. Ma, me ne rendo conto, è passato un po’ di tempo da allora. Ultimamente, qualcosa era cambiato. Non si vantava più delle sue vittorie
a tennis. La maschera del duro si era ammorbidita. Gli anni sfiancano qualsiasi Cassius Clay; sono sempre loro, prima o poi, a vincere il campionato.
Che devo dire di Luigi? Negli ultimi quarant’anni ho scritto più cose di lui che di me stesso. Mi ripeterei volentieri, ma non ci riesco. Che senso avrebbe? Ho notato che la generazione creativa degli under 50 o lo conosce poco, o non lo conosce affatto. Una di quelle ingiustizie di cui è piena la storia della pubblicità. E, del resto, chi sceglie di darsi alla
pubblicità sa bene che diventerà uno specialista dell’effimero. Che importa? La natura è un grande catalogo di capolavori effimeri. L’espace d’un matin: il tempo di una rosa. Luigi non ha scritto libri né elaborato teorie. Era un uomo d’azione.
Si accendeva di passioni brucianti ma presto passava ad altro. Si scocciò di impaginare riviste, vide gli annunci di Bernbach e disse: «È lì che voglio andare a lavorare.» Quando voleva una cosa, si metteva d’impegno e la otteneva. Andò a New York e si installò alla DDB. Poi transitò in Germania e, quando tornò in Italia, fece faville con un’agenzia comprata
dai tedeschi, la Troost. In pochi mesi si impose come il portabandiera della creative revolution italiana. Agitò il mercato, fibrillò creativi giovani e meno giovani, fondò un club e vinse una valanga di premi. Poi andò a scuotere un’altra agenzia, la CPV, ma in capo a due anni si scocciò di fare il direttore creativo perché nel frattempo si era innamorato dei set e aveva deciso di diventare regista.
La prima volta che l’ho visto, stava in piedi sul palcoscenico di un teatro milanese. Era il 1969 e parlava come presidente dell’Advertising Creative Circle. Era al suo primo incontro pubblico con la comunità creativa. Disse che per un professionista con le palle non esistono prodotti facili e prodotti difficili. Anche il più umile dei prodotti può ispirare idee a non finire. Per dimostrarlo, si tolse di tasca dei fogli dattiloscritti e lesse al microfono un interminabile, esilarante elogio dello stuzzicadenti. Standing ovation, e gran voglia collettiva di rivoltare il proprio mestiere come un calzino, a partire dall’indomani.
Se negli anni Settanta il livello medio della creatività italiana fece un formidabile balzo in avanti, lo si deve a Luigi. Almeno in misura dell’80%. Se più tardi quel livello cominciò piano piano a scadere, fu anche perché Luigi aveva smesso di fare il dinamitardo. Non che fosse diventato meno esuberante. Solo che, da regista, aveva un po’ smesso di strizzare l’ambiente, di provocarlo, di scatenare emulazioni, passioni, invidie, gelosie. E grandi campagne.
Il suo rapporto con gli account e con i clienti era una fonte inesauribile di aneddoti. Li sovrastava fisicamente, come se potesse o volesse annientarli da un momento all’altro. Rispondeva con impeccabile aplomb alle prime obiezioni; poi perdeva la pazienza e dava la stura al sarcasmo, alla beffa, all’insolenza. «Sentite anche voi odore di bruciato?», domandò incautamente il manager di un’azienda alimentare durante un dibattito estenuante. «Sì, sono le mie palle che fumano», rispose Luigi a braccia
conserte. Era il suo modo di dominare il ring. Aveva un innato senso del gioco e amava gli scherzi. Per non so quale servizio si fece fotografare in pose da Al Capone, con tanto di sigaro. Si divertiva ad aggredire all’improvviso, con le sue dita di ferro, i polpacci del primo malcapitato che gli capitasse a tiro, abbaiando in sincrono. Per qualche tempo si spacciò per ebreo, un po’ per scimmiottare il maestro dei maestri (Bill Bernbach) e un po’ nella speranza di trovarsi in pole position in vista d’un imminente sbarco della DDB in Italia. «Mi presti il tuo spazzolino da denti? Ho lasciato a casa il mio.» Ed io: «Chiedimi tutto, ma non il mio spazzolino.» «Sei uno sporco antisemita.» Queste battute
cessarono quando la DDB decise di affidare la guida della sede italiana a Gianni Pincherle.
Si atteggiava a boss e boxeur, ma è sempre stato un tenerone. «Non guidare troppo veloce», mi raccomandava quando partivo per le vacanze. Aveva perso un figlio, Tony, in un incidente stradale. E qualche volta, forse, vedeva Tony nei creativi della sua squadra. Io avevo solo dieci anni meno di lui, ma mi parlava come se, ai suoi occhi, fossi un eterno
adolescente.
Ho detto che non formulava teorie. Ma è vero solo in parte. Intendevo dire che non le ammantava di sacre parole. Era spiccio, mirava al nocciolo. I suoi anni americani lo avevano americanizzato anche nel modo di parlare. Una lingua imperativa, a mezza strada tra l’ironia pugliese (era nato all’Asmara da una famiglia di baresi) e il pragmatismo yankee, fatta di pensieri brevi, immediati, in nessun caso lambiccati. Per una casa farmaceutica, la Pierrel, elaborò un progetto totalmente alternativo rispetto alle istruzioni del cliente, ma cento volte più giusto ed efficace. Da una ricerca era emerso che la Pierrel era antipatica ai farmacisti. «Invece di buttare soldi per un analgesico, facciamo una campagna che li renda
simpatici ai farmacisti.» «E come?» «Facendo diventare i farmacisti simpatici alla gente. Diciamo che i farmacisti non sono solo impacchettatori di medicine, ma anche la nostra salvezza quando il medico non è a portata di mano.»
Era un insight potentissimo, e molti farmacisti italiani furono così contenti di vedersi rappresentati in quel modo che misero gli annunci sotto vetro, li incorniciarono e li appesero alle pareti come quadri. Luigi era un trascinatore spiazzante; nella pubblicità italiana nessuno è stato più influential di lui nel decennio che va dal 1969 alle soglie degli Ottanta. Un periodo fin troppo breve, è vero, ma il più intenso e brillante del dopoguerra. La mia generazione gli deve tantissimo. Spero che Till Neuburg, che gli fu complice da molto prima che io lo conoscessi, abbia voglia di scrivere una biografia professionale di Luigi più fattuale e articolata. Io, quando sono costernato, divento impulsivo e un po’ bislacco.
Ciao Luigi. Stanotte voglio sognare che ci vediamo in trattoria. Tu, Neri, Marco, Loris, tanti altri amici ed io.