Ho trovato molto divertente l’enfasi che si è dato a questo spot di Pantene, definito “femminista”.
L’azienda inglese di shampoo e prodotti per capelli, facente parte del gruppo Procter & Gamble, ha diffuso nelle Filippine una campagna pubblicitaria che sembra voler far riflettere sugli stereotipi di genere.
Nel breve film pubblicitario Boss vs ‘Bossy’, infatti, appaiono un uomo e una donna che, ricoprendo gli stessi ruoli e facendo le stesse azioni, vengono considerati in maniera completamente diversa.
Se un uomo parla empaticamente è “persuasivo”, se lo fa una donna viene giudicata “invadente”. Se un uomo ha un atteggiamento deciso è un “boss”, una donna è “prepotente”. Se un uomo è stakanovista e lavora sino a notte fonda è “scrupoloso”, una donna è “egoista”. Un uomo che tiene al suo aspetto è “curato”, mentre una donna è semplicemente “vanitosa”. Infine, se per strada un uomo si pavoneggia è “armonioso”, la sua controparte femminile è “appariscente”.
Al termine, il payoff invita a essere “forti e brillanti”, giocando sulla doppia valenza sia per i capelli che per il proprio carattere.
Grazie a Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook, che ha postato il video sul proprio profilo commentandolo entusiasticamente (“Questo è uno dei più forti video che io abbia mai visto che illustra come, quando una donna e un uomo fanno la stessa identica cosa, si tenda a considerarli in maniera completamente diversa”) lo spot è salito alla ribalta, raccogliendo lodi ma anche feroci (e altisonanti) critiche.
Jessica Roy sul Time, ad esempio, ha sottolineato come sia triste che “il messaggio di Pantene tiri in ballo il femminismo solo per vendere più shampoo” e come questo sia un tipico “esempio intelligente per vecchie aziende per far spendere i soldi alle donne”. Alexandra Petri sul Washington Post invece ha considerato lo spot “totalmente in malafede”. Mentre Katy Waldman su Slate ha affermato che non ci sia alcun problema a usare il femminismo per promuoversi ma “è una pubblicità fastidiosa, perché equivale a dire: sfidiamo il sessismo acquistando un prodotto di bellezza”.
A mio parere si è trasceso negativamente il messaggio di questa campagna.
Certo, è stato messo l’accento sugli stereotipi sessisti, spesso comuni a molte culture. Ma più che definirlo un “manifesto femminista” preferirei vederlo come una presa di coscienza della persona, sfruttando appunto lo stereotipo più abusato: la bellezza, e quindi la cosmesi e i prodotti cosmetici.
Ma la Pantene non è stata la prima (né sarà l’ultima) casa cosmetica a sfruttare questa dinamica. L’esempio più longevo è il “Parce que je le vaux bien”, “Perché io valgo” della L’Oreal. Uno slogan che ha toccato da poco il traguardo ragguardevole dei 40 anni.
La nota azienda francese specializzato nei prodotti di cosmetici e bellezza, ha contribuito con i suoi prodotti di bellezza e con il suo slogan all’emancipazione di tante generazioni di donne. Tra le moltissime testimonal di successo del marchio troviamo attrici, cantanti e top model, come Jane Fonda, Diane Keaton, Claudia Schiffer, Aimee Mullins, Laetitia Casta, Andie Macdowell, Beyoncè, Jennifer Lopez, Freida Pinto, Ines de la Fressange, Fan Bing Bing.
Lo slogan, che per molte è diventato quasi un mantra, fu creato nel 1971 da Ilon Specht, giovane pubblicitaria di 23 anni dell’agenzia americana McCann Ericksson: “Beacause I’m worth it” venne pensato inizialmente per le tinte Preference di L’Oreal che faticavano a imporsi sul mercato statunitense a causa del concorrente Clairol e finì per caratterizzare tutti i prodotti della casa cosmetica.
Con questo slogan “Il marchio si è trovato di colpo associato alla vita delle donne e alle sue evoluzioni – ha affermato Cyril Chapuy, direttore generale International di L’Oreal Paris -. La bellezza diventava un vettore per la loro indipendenza”.
Uno slogan che non è rimasto fermo nel tempo, ma che è evoluto negli anni passando da “io valgo”, cioè una donna che prende in mano le redini della propria vita, fino a “noi valiamo”, che esprime la consapevolezza di forza collettiva.
Queste due comunicazioni ci insegnano come la pubblicità possa servire non solo alla sua funzione di vendita di un prodotto, ma anche a educare, a rispecchiare l’evoluzione della società. Quasi come se avesse una funzione formativa.
E questa funzione regala a tutti i comunicatori una responsabilità molto più grande.